La chemioterapia è uno dei pilastri della lotta contro il cancro, e consiste nell’uccidere delle cellule tumorali per mezzo di farmaci (i chemioterapici) che interferiscono con funzioni cellulari fondamentali. Siccome la caratteristica più ovvia e importante delle cellule cancerose è che si moltiplicano in fretta, troppo in fretta, i farmaci usati in chemioterapia si occupano di solito di sabotare la riproduzione cellulare.
E visto che una cellula che vuole riprodursi deve essere in grado di assemblare in maniera quantomeno decente una grande quantità di materiale genetico (da lasciare in eredità alle sue cellule figlie), la maggior parte dei chemioterapici interferiscono in qualche modo con la salute e il benessere del DNA.
Gli antimetaboliti, ad esempio, sono imitazioni quasi perfette delle basi, i mattoni con cui viene assemblato il DNA. Quando riceve queste copie contraffatte, la cellula – ingenuamente – le utilizza come fossero pezzi originali. Ma immessi in catena di montaggio, gli antimetaboliti rivelano la loro pessima qualità, inceppando i macchinari – fatti di proteine – necessari alla fabbricazione del DNA e portando di fatto all’abbandono di ogni proposito di riproduzione. Una delusione amarissima per le ambiziose cellule tumorali, che finiscono per morirne.
“Cellule” di Iacopo Leardini
Un’altra importante classe di chemioterapici è quella degli agenti alchilanti, che funzionano come gomme da masticare che si attaccano al DNA. A volte si limitano ad appiccicarsi a una base, modificandola, e introducendo quindi una mutazione. Altre volte si attaccano a entrambi i filamenti del DNA, incollandoli tra di loro.
La cellula, comprensibilmente esasperata, cerca di staccare la gomma dalla sua chioma di DNA, ma con pessimi risultati: i filamenti si strappano, e il DNA perde pezzi. Vedendo il suo materiale genetico ridotto in queste condizioni, la cellula cade in una spirale depressiva che la conduce a una triste morte (l’apoptosi).
Il problema della chemioterapia è che non sono solo le cellule tumorali ad aver voglia di moltiplicarsi, ma anche le normali cellule del nostro corpo.
Usare un chemioterapico per combattere un tumore, è più o meno come gettare da un Canadair una pioggia di diserbante su una foresta, infestata da una pianta parassita che la sta soffocando.
Se tutto va bene, la pianta infestante (il cancro) sarà eliminata. Ma il trattamento non farà tanto bene neanche al resto del bosco: l’erba e i cespugli (le cellule a ricambio rapido) si seccheranno, mentre gli alberi (le cellule a crescita lenta o a riposo), pur perdendo qualche foglia, resteranno più o meno in salute.
Così le cellule dei bulbi piliferi, di stomaco e intestino, del sangue, che si riproducono piuttosto rapidamente, patiscono parecchio la chemioterapia. Le loro sofferenze sono alla base degli effetti collaterali più comuni del trattamento: vomito, nausea, diarrea; perdita dei capelli; stanchezza (causata dalla diminuzione di globuli rossi nel sangue) e infezioni (dovute alla moria delle cellule del sistema immunitario, i globuli bianchi).
Tuttavia, qualche tempo dopo la pioggia di diserbante che ha salvato la foresta (danneggiandola), anche i cespugli secchi – le cui radici sono rimaste intatte – rinverdiscono e ricominciano a crescere.
Allo stesso modo le radici dei peli, indebolite dalla chemioterapia, riprendono vita e fanno spuntare nuovi capelli; e anche le cellule del sangue e dell’intestino ricominciano a crescere e ripopolano i rispettivi territori, riprendendo il lavoro da dove l’avevano lasciato.
Altre Fonti
New antimetabolites in cancer chemotherapy and their clinical impact