Gli anticorpi sono proteine la cui principale funzione è riconoscere gli intrusi presenti nell’organismo (per esempio virus e batteri) e segnalarli al sistema immunitario, in modo che questo provveda alla loro eliminazione.

Gli anticorpi sono fatti a forma di Y o di fionda: i bracci superiori si agganciano al bersaglio, mentre il manico funziona un po’ come un lampeggiante, che richiama l’attenzione del sistema immunitario sull’intruso da eliminare. Il manico serve anche a tenere attaccati gli anticorpi alla superficie delle cellule che li producono – le cosiddette cellule B – che li rilasciano poi in caso di bisogno nella circolazione.

(“Cellule” di Iacopo Leardini – Il pollice del panda, per biocomiche.it e AIRC)

Le cellule B hanno una particolare venerazione per gli anticorpi e per poterne sfoggiare uno sulla propria superficie sono disposte a tutto, anche a fare qualcosa che a nessun’altra cellula verrebbe mai in mente: mettere mano al proprio DNA.

Ognuno dei geni necessari a fabbricare un anticorpo, infatti, è diviso in vari frammenti, sparpagliati lungo un bel tratto di cromosoma; e deve essere riassemblato prima di poter essere utilizzato. L’operazione, che consiste nel tagliare e ricucire più volte il DNA, è affidata in buona parte al caso ed è estremamente rischiosa. Spesso finisce male, tanto che molte di queste cellule muoiono nell’impresa.

Quelle che sopravvivono, però, si rivelano di grandissima utilità. Infatti, visto che non è un lavoro molto preciso, l’assemblaggio dei geni anticorpali dà ogni volta un risultato differente: in pratica, ogni cellula B che esce viva dall’operazione produce un anticorpo virtualmente unico. Così il nostro corpo può utilizzare i suoi miliardi di cellule B per riconoscere altrettanti potenziali pericoli.

Contro i tumori, però, le cellule B possono ben poco.

Nella maggior parte dei casi infatti, agli occhi del sistema immunitario una cellula tumorale è identica alla sua controparte normale. E le normali cellule del nostro corpo vengono religiosamente rispettate dalle cellule B, addestrate a non attaccare niente che provenga dall’ambiente nel quale sono cresciute: questo evita che il sistema immunitario si rivolti contro il nostro stesso corpo.

Una cellula tumorale può essere riconosciuta dalle cellule B solo se la sua trasformazione è talmente radicale da renderla “estranea”: in questo caso le cellule B si attivano e rilasciano anticorpi contro il tumore.

Tuttavia, un modo per aggirare il blocco psicologico delle cellule B – e spingere il sistema immunitario a combattere il tumore – esiste: immettere dall’esterno anticorpi antitumorali prodotti in laboratorio.

Per una curiosa coincidenza, il primo di questi anticorpi a essere approvato per l’utilizzo clinico – il rituximab— aggredisce proprio le sue cellule di origine: viene infatti usato per combattere i tumori derivati da cellule B.

Una volta iniettato nel sangue, il rituximab si aggira come un’ombra per le piccole e grandi vie del nostro corpo, mescolandosi agli altri anticorpi. Quello che cerca è una particolare proteina (chiamata CD20) presente solo sulla superficie delle cellule B (tumorali e non); quando la trova, ci si attacca come una ventosa.

Se una cellula B viene riconosciuta ed etichettata dall’anticorpo, il suo destino è segnato. A volte, sapendo quello che l’aspetta, la cellula sceglie di morire – per così dire – di sua spontanea volontà: e si suicida.

Altrimenti, a occuparsi di lei ci penserà una cellula killer del sistema immunitario che, richiamata dal rituximab, la giustizierà senza neanche farle un processo. Altre volte, invece, la cellula B viene avvistata per prima da una gang di proteine del sangue (il sistema del complemento) che provvedono a linciarla, riempiendola letteralmente di buchi.

In ogni caso, una triste fine.

Questa sanguinosa ma selettiva caccia alla cellula fa comunque vittime innocenti. Anche le cellule B non tumorali, infatti, vengono eliminate, perché possiedono la proteina (CD20) riconosciuta dal rituximab.

La loro uccisione però non comporta gravi conseguenze per l’organismo, capace di rimpiazzarle in pochi mesi. Per questo gli effetti collaterali del rituximab sono decisamente modesti, soprattutto se confrontati con quelli della chemioterapia.

 

Altre Fonti e Approndimenti

The generation of diversity in immunoglobulins (Immunobiology: The Immune System in Health and Disease., 5th edition)

B cells and antibodies (Molecular Biology of the Cell, 4th edition)